Di tutte le fasi di cui una gravidanza è composta per me la più difficile rimane il post parto.
Sono uno di quei strani esseri mitologici a cui, fin dalla prima gravidanza, il parto non faceva paura.
O meglio, vi era anche la paura, ma era una tra le tantissime emozioni, sovrastata dalla curiosità, da quel senso atavico di potenza e sensazione di magia che per quasi nove mesi mi era cresciuto dentro e voleva manifestarsi.
Ho vissuto la prima gravidanza preparandomi al parto, ma non ero assolutamente pronta a quello che sarebbe arrivato dopo.
Mi chiedo se qualcuno lo sia.
Da una parte non se ne parla quasi mai, dall’altra credo sia difficile trovare le parole, il tono di voce, per parlarne e comunicare davvero cosa sia “il quarto trimestre”.
Ricordo e ricorderò per sempre però l’esatto momento del post parto della mia prima gravidanza, in cui ho provato un dolore infinito.
Ero nel bagno di un ospedale, quando ormai l’adrenalina e l’ossitocina scatenate dal parto erano scese, con un essere vivente che urlava da 24 ore, in una degenza isolata a causa della “Covid-era“.
In quel momento ho guardato il mio corpo: dolorante, sanguinante, e mi sono sentita una tomba.
Non ero pronta a vedermi così. Non ero pronta a sentirmi così.
Quella pancia svuotata, deforme, che per nove mesi aveva fatto crescere una vita ed ora era solo sede di dolori mi sembrava la cosa più innaturale del mondo.
Di colpo il mio corpo mi è sembrato il riflesso della morte.
Non ero più chi ero prima di rimanere incinta, non ero più chi ero durante la gravidanza, ero il residuo di un corpo doloroso e dolorante, che mi sembrava impossibile potersi riprendere e tornare in vita.
È proprio di questo momento, da me soprannominato il momento del “corpo-tomba”, di cui ho avuto paura da subito nella mia seconda esperienza di maternità.
Questa volta, oltre che al parto, è lui, soprattutto lui, che mi sono preparata ad affrontare.
Come talismano per la seconda gravidanza ho scelto un anello con un’incisione che recitava “I honor this body, I cherish the earth”.
Per ricordarmi di onorare il mio corpo per il ciclo naturale vita/morte/vita che riesce ad incarnare.
Perché no, non sono uscita da questo impasse dicendomi che anche così il mio corpo era meraviglioso, era bello e tutti quei pensieri politically correct e body positive che troviamo sui social o nelle pubblicità di creme anticellulite.
Ne sto uscendo accettando che si, in questo momento il mio corpo è una tomba.
È la parte morte del ciclo vita/morte/vita e non me la cavo mettendoci lustrini e fiocchetti.
La posso solo vivere.
Lo posso onorare anche nella sua parte morte e per farlo realmente non devo coprire il gusto dell’amaro con una zolletta di zucchero e frasi motivazionali.
Per onorarlo autenticamente lo devo vivere anche nel dolore e nella costante trasformazione, come quella che una gravidanza (ma potrebbe essere una malattia o anche semplicemente l’invecchiamento inevitabile) mette in atto.
Così, mentre facevo la prima doccia con un cuore solo dopo mesi ad aver cantato sotto l’acqua per due, ripetendo il mantra “I honor this body“, ho sentito una scintilla nuova dentro di me.
Una scintilla che mi ha fatto provare amore per il mio corpo, non per quello che riesce a fare, aveva fatto o farà, ma amore per il mio corpo per il semplice fatto di esistere, di essere lì ora in questa forma.
Si dice che la dea Afrodite sia nata dalla spuma del mare.
In verità, l’Afrodite dentro di noi può nascere e rinascere anche sotto una doccia, in cui un corpo dolorante, straziato e vuoto, trova il coraggio di stare nella morte.
È proprio stando nella morte, standoci davvero, senza pretese, che ricomincia a sentirsi vivo.
Mentre uscivo dalla doccia, il momento di self-care a cui al massimo puoi aspirare 2 giorni dopo il parto, nella testa si sono fatte spazio queste parole, frasi sconclusionate forse, che ti riporto qui:
Il mare e le lacrime hanno lo stesso sapore, Afrodite nasce e rinasce dall’acqua salata non importa che sia di lacrime o di mare.
La parola maternità nasconde dentro di sé la parola mare.
Afrodite può nascere dall’acqua del mare, ma anche da lacrime amare, da amare.
Se ti è mai capitato di sentire che il tuo corpo fosse il contrario della vita, vorrei dirti che non sei stata la sola.
Non ti dirò di ringraziarlo per quello che ti ha permesso e permette di fare, perché a me questa frase fa pure provare un po’ di senso di colpa.
Come se fossi un’ingrata, per non apprezzare che il mio corpo sanguini e sia dolorante, dato che ha dato la vita.
Ti voglio solo dire: ehi, so cosa stai provando. Non è bello, non è per niente bello. Lo so. Anche se ora non ti sembra possibile, dopo la morte c’è la vita.
E poi ancora la morte e poi ancora la vita.
Fino a che non scopriremo come si raggiunge il paese degli unicorni, qui è così.
Non devi sentirti grata, non devi sentirti bella, non devi accettarti, non devi tirarti su di morale, non devi amarti per forza.
Per oggi puoi anche solo piangere nella doccia e sapere che non sei la sola ad averlo fatto.
Perché questo è onorare davvero chi sei.
Un abbraccio sincero,
Giulia