“Innanzi tutto, i generi degli uomini erano tre, e non due come ora, ossia maschio e femmina, ma c’era anche un terzo che accomunava i due precedenti, di cui ora è rimasto il nome, mentre esso è scomparso. L’androgino era, allora, una unità per figura e per nome, costituito dalla natura maschile e da quella femminile accomunate insieme [ …].
Omero narra che tali figure tentarono di scalare il cielo per assalire Zeus. Allora gli dei tennero consiglio per decidere sul da farsi […]. Zeus disse: “io li taglierò in due” […].
Dunque, da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura”.
Il mito di Aristofane o dell’Androgino, narrato da Platone

Se oggi so di essere Giui è grazie alla fotografia.
Questo strumento mi ha aiutata negli anni a recuperare l’identità della mia anima, fatta a pezzi da rigidi e insensati canoni sociali, fondati sulla divisione dei sessi, invece che sulla loro unione e integrazione.

Se ci pensi, anche solo tramite le icone maschili e femminili che ci vengono proposte dal cinema o dalla letteratura, l’opposizione dei generi è qualcosa che ci influenza nelle scelte di ogni giorno.

FOTOGRAFIAMO CIÒ CHE SIAMO

“La tua identità corrisponde al sentire della tua anima oppure ad uno stereotipo di genere?”.

Uno degli strumenti più potenti che conosco per rispondere a questa domanda è l’autoritratto.
Per me è stata una scoperta salvifica, che ho fatto verso i 18 anni e a cui torno ancor oggi, quando sento che la vita mi sta sospingendo verso luoghi a me remoti.

Se vuoi anche tu intraprendere questa esplorazione, qui ti farò conoscere alcuni artisti che nel loro lavoro, tramite l’uso dell’autoritratto, hanno indagato le possibilità creative dell’io.
Non per (ri)cercare la parità tra maschile e femminile, ma piuttosto la loro integrazione, sulla scia del mito greco dell’androgino.

URS LUTHI: L’AUTORITRATTO COME SPECCHIO

“Forse l’aspetto più significativo e creativo del mio lavoro è l’ambivalenza come tale (….). Il risultato di questa mia indagine è il ritratto. Un ritratto che ha una sua propria esistenza e che vive al di fuori di me, appena si spengono i riflettori. Chi lo osserva lo paragona al proprio fino a modificarsi, e sdoppiarsi. Questo è il mio contributo alla coscienza di sé, dei propri limiti, dei propri eccessi, delle proprie possibilità… e anche delle diverse realtà che vivono sotto una stessa realtà”.

Se dovessi riassumere il lavoro di Urs Luthi (Svizzera, 1947) userei il titolo di un suo autoritratto: “I’ll be your mirror” (1972) perché con i suoi scatti vuole essere lo specchio di tutti, oltre che di sé stesso.

In un’epoca in cui l’uomo che si traveste era ancora un tabù, Luthi ottiene il primo successo grazie ad una serie di autoritratti androgini, dove si mostra allo spettatore nella versione maschile, esplorando nel contempo il suo complementare femminile.

Luthi si maschera, si trucca, si mette in pose ultra femminili, ma il suo non è un “gioco” o una “sperimentazione” ironica: vuole indurci a specchiarci nella stessa immagine in cui lui si specchia a sua volta.

Uno dei suoi autoritratti che amo maggiormente risale al 1977: qui indaga il femminile con un senso di malinconia e solitudine, mostrando una fragilità che al mondo maschile, con le imposizione del sistema patriarcale, è spesso negata.
In scatti come questi, la vita emotiva degli uomini riesce a venire alla luce.

Urs Luthi autoritratto

Voglio mostrarti anche Self-portrait in Six Pieces (1975), un potente affresco fotografico, costruito su due blocchi: nella parte superiore puoi vedere cinque autoritratti dell’artista, atteggiato nelle pose di una modella, che, però, sembra a disagio nella propria identità (come suggeriscono le strisce sovrapposte agli occhi).
Nel blocco sottostante, è ritratta una donna che, a sua volta, cela la propria identità indossando grandi occhiali da sole.
Tutte queste figure sembrano rivolgersi allo spettatore, domandandogli: “cosa nascondi di te stesso?”.

Self-portrait in Six Pieces Urs Luthi

Quando ti racconto del lavoro di altri artisti, lo faccio proprio per questo: perché la fotografia ha una potente capacità specchiante, che ci permette di (ri)trovare parti di noi negli scatti altrui.

CINDY SHERMAN: L’AUTORITRATTO COME CRITICA AGLI STEREOTIPI

“Quando preparo ogni personaggio devo considerare ciò contro cui sto lavorando; il fatto che la gente guarderà sotto il trucco e la parrucca, in cerca del comune denominatore, del riconoscibile. Sto cercando di far conoscere alle persone qualcosa di sé stesse, non di me”.

Anche la fotografa Cindy Sherman (Stati Uniti, 1954), al pari di Luthi, utilizza l’autoritratto come uno specchio, ma l’immedesimazione finale dello spettatore è differente, poiché questa artista lavora per sfidare gli stereotipi di genere.

Nella maggior parte delle sue foto, è sempre lei la protagonista, mimetizzata tramite l’uso del make-up, di costumi o protesi.

Negli scatti “Untitled Film Stills” ( 1977 e il 1980), ricalca le scene di inesistenti film di serie B degli anni cinquanta e sessanta, mostrando donne ammiccanti, languide e in posa, come fossero prodotti mediatici confezionati dalla cultura patriarcale. In “Rear Screen Projection” (1980-1981), riproduce l’artificio degli show televisivi o delle riviste patinate, continuando a fotografare la donna “travestita” per recitare un ruolo.

Rear Screen Projection Cindy Sherman

Cindy, a differenza di altre fotografe, come per esempio la mia amata Francesca Woodman, non lavora per indagare il proprio interiore, preferendo esplorare il tema dell’identità in generale, criticando i meccanismi di riconoscimento sociale di massa.
Quel che vuole dimostrare è la libertà di ognuno di poter sperimentare la propria soggettività, oltre stereotipi, etichette o imposizioni culturali.

MICHEL JOURNIAC: SIAMO SEMPRE “UNO, NESSUNO, CENTOMILA”

Michel Journiac (Francia, 1935- 1995) è un artista che utilizza lo strumento fotografico, ma anche la pittura, azioni, video e sculture, per interrogarsi su come la società ci condizioni.

Penso che “Hommage a Freud” sia il suo lavoro più perturbante: qui si fa fotografare mentre indossa i vestiti, gli occhiali e l’acconciatura del padre e poi con la parrucca, i gioielli e il trucco della madre. Gli orpelli e gli accessori tipici del maschile e del femminile, utilizzati comunemente come segni distintivi e di genere, qui non sono altro che oggetti di “scena”, con cui ci travestiamo per interpretare il copione che la società ci affida.

Michel Journiac Hommage a Freud

Michel Journiac vuole dirci che ognuno di noi, al pari dei suoi genitori, è solo camuffato da sé stesso e che la nostra identità esteriore è frutto di una serie di “maschere” che che offriamo al mondo.

IL MIO NUOVO GRUPPO FACEBOOK: “FOTOGRAFIA SCIAMANICA”

Siamo “uno, nessuno, centomila” e nella ricerca delle nostre mille versioni io credo nel potere terapeutico dell’autoritratto, come ti raccontavo qui.

Utilizzare l’autoritratto significa poter essere autore e soggetto dello scatto, vuol dire scegliere di raccontarsi non più solo come donna o uomo, ma come singolo individuo pieno di anima.

Per questo voglio farti partecipe di una grande novità: il mio gruppo Facebook “Tu sei la dea” avrà un nuovo nome, “Fotografia sciamanica”, e sarà un luogo dove non esisterà più distinzione di genere e dove tutti potranno imparare ad usare la fotografia come esperienza di riconoscimento.
Per entrare non ti richiederò specifiche conoscenze fotografiche o l’utilizzo di strumenti sofisticati (va benissimo se possiedi anche uno smartphone), l’importante è che tu abbia voglia di sperimentare.

“La tua identità corrisponde al sentire della tua anima oppure ad uno stereotipo di genere?”,
ti aspetto nel mio gruppo per scoprirlo.

Buona giornata!

Giui