Questo è un diario di pensieri sparsi e casuali fatti durante una quarantena qualunque di una fotografa qualunque durante una Pandemia Eccezionale.
La mia quotidianità non è cambiata di molto. È come sempre.
Assomiglia ad un periodo intenso di postproduzione, di inverno.
Solo che è primavera. Ed in teoria dovrei essere un giorno qui, e l’altro là ad incontrare nuove storie e fotografare persone, che ancora non conosco.
Solo che è primavera e le margherite della Pandemia se ne fregano e sbocciano comunque.
Passa un’ambulanza e fingo di non sentire, ma il cuore si incrina
Passa un’altra ambulanza e fingo che non sia nulla, ma il cuore si crepa.
Passa ancora un’altra ambulanza e fingo che sia normale, ma il mio cuore si spezza.
E me ne sto così, col cuore spezzato fino a sera, fino all’ultima ambulanza, che riesco a sentire fuori e l’ultima rottura, che provo dentro.
Provo a fotografare, ma mi vengono solo foto tristi.
provo a lavorare, ma la mia concentrazione si prende una pausa.
Fingo di essere in vacanza ed ho l’illusione che migliori, fino a quei dieci minuti di puro panico, in cui non vedo via d’uscita e mi sembra un incubo, che non posso spegnere con il telecomando.
Perché ci sentiamo così in colpa ad essere felici, se fuori esplode il mondo?
Che in fondo poi la felicità, non ha mica mai colpa, al massimo stordisce, quel poco che basta, per esser contagiosi.
Un virus di felicità, ecco la risposta personale di oggi.
Qualcuno finalmente ha spento la fretta.
Quanto ti fa sentire più strana sapere che il tuo ritmo naturale è quello innaturale per una società?
Ed anche oggi la fotografia mi ha salvata.
Se c’è qualcosa che ho capito di questo periodo è che è una lente di ingrandimento sulle sensazioni.
Se normalmente saresti triste, diventi inconsolabile.
Se normalmente ti sentiresti allegro, diventi euforico.
Se normalmente ti sentiresti in armonia, diventi amato.
Se normalmente non sai come ti senti, diventi il caos.
E che caos sai.
L’unico strumento per sondarlo per me rimane sempre la fotografia.
Poi lo so, che tutto finirà e che comunque finirà io ce la farò.
Perché sono l’alchimista delle mie piccole tragedie personali.
Colei che prende tutte le urla, lo sconforto, la disperazione, i rifiuti e le cadute della sua vita e li trasforma in qualcosa che luccica.
Se togli tragedia, rimane poesia.
Sono consapevole di essere più brava a stare nella difficoltà e nel disagio, che nella pace e nella serenità.
Sono colei che tocca il fondo e poi risale. Ancora. Ancora. Ancora. Ancora. Ancora. Ancora. Ad libitum.
Perché sono quella che ce la fa sempre. Ammaccata, lacerata, ma ce la fa. Non ho resistenza al dolore, ma resilienza alla vita, sì.
Sono eterna nella mia partecipazione al mondo, che sia di vita o di morte.
Così ho posso sentire il dolore del mondo, eppure contemporaneamente meravigliarmi della bellezza della luce che cade casuale dalla finestra della cucina, sulla polvere che non ho voglia di pulire.
Forse era destino che si posasse un po’ ovunque, anche sul cuore per darmi coraggio.
Ce lo ricorderemo come quel momento in cui, tutti si è fermato, ci hanno regalato un’occasione mancata per divenire esseri umani migliori e ci siamo ubriacati di Alcol, Amuchina e Amore.