“Nei confronti della fotografia ero colto da un desiderio ‘ontologico’: volevo sapere ad ogni costo che cos’era ‘in sé’, attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini.”

Così si apre “La camera chiara”, libro che il saggista Roland Barthes scrisse per rispondere al Quesito (lettera maiuscola) che tormenta ogni fotografo (spoiler: ne sono ossessionata anche io!): che cosa fa sì che la fotografia renda così irripetibile l’immagine? Come fa una fotografia ad attirare il nostro interesse? E questo interesse di che natura è?

Roland Barthes, per ricercare l’essenza dell’immagine fotografica, decide di affrontare la questione in maniera scientifica, con una divagazione teorica sulla fotografia. Ma è solo con il ritrovamento di una vecchia fotografia della madre, Henriette Binger, che comprende quanto questo approccio sia inutile: l’interesse che abbiamo per alcune immagini si può spiegare solo andando a scavare nella nostra anima di spettatori.

Significa che se una fotografia è significativa per me, o per te, è perché ha qualcosa, che essa possiede e altre non hanno, che la anima da dentro.
Qualcosa che la rende viva e presente alla nostra coscienza, anche se ciò che è rappresentato nell’immagine ormai è morto (nel senso che non esiste fisicamente più).

Ma cosa produce questa reazione? Cosa ci colpisce in una immagine?

Le foto che ci animano sono caratterizzate da due elementi che co-esistono ma che non esistono nello stesso piano:
lo studium e il punctum, ovvero la realtà di un’immagine (ciò che vediamo rappresentato) e la sua essenza (ciò che ognuno sente).

Lo studium è l’aspetto puramente fisico, razionale e sociale che compone lo scatto (persone, oggetti, vestiti, paesaggio, strade…. ). Esso mette in comunicazione chi guarda la fotografia (spectator) e il fotografo (operator) che l’ha scattata.

A volte può accadere che la lettura di uno scatto prenda una strada diversa, come se il nostro occhio perdesse improvvisamente interesse per la vita oggettiva dell’immagine.

IL PUNCTUM

“Non sono io che vado in cerca di lui ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. Io sono attratto da un “particolare”. Io sento che la sua sola presenza modifica la mia lettura, che quella che sto guardando è una nuova foto, contrassegnata ai miei occhi da un valore superiore.”

Il punctum è ciò che coinvolge in una fotografia, un segno particolare che agisce su di noi e che reca l’impressione di essere feriti in qualche punto dell’anima. Barthes non è in grado di spiegarci cosa sia il punctum, se non tramite una sfumatura di definizione: è un particolare improvviso, casuale e privato. Poi ci tiene a precisare che non tutte le fotografie hanno un punctum. E quando esiste è sempre qualcosa di differente.

Se ne rende conto mentre ricerca dolorosamente la madre morta guardando delle vecchie foto («mi dibattevo fra immagini parzialmente vere, e perciò totalmente false»). Talvolta, in alcuni scatti, vede degli oggetti (un portacipria d’avorio o una boccetta di cristallo intagliato) che gli danno l’impressione di averla trovata, ma non in modo abbastanza forte da riuscire a richiamarla a sé.
Finché, in una sola fotografia tra le tante che tiene in mano, riesce a cogliere la “verità” di quel volto materno tanto ricercato.
Questo è il racconto del punctum che si rivela e si scopre casualmente:

“Così, solo nell’appartamento nel quale era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii. Era una fotografia molto vecchia. Cartonata, con gli angoli mangiucchiati, d’un color seppia smorto, essa mostrava solo due bambini in piedi, che facevano gruppo, all’estremità d’un ponticello di legno in un Giardino d’Inverno col tetto a vetri. Mia madre aveva allora (1898) cinque anni, suo fratello sette. […] Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre. La luminosità del suo viso, la posizione ingenua delle sue mani, il posto che essa aveva docilmente occupato senza mostrarsi e senza nascondersi, la sua espressione infine, che la distingueva, come il Bene dal Male, dalla bambina isterica, dalla smorfiosetta che gioca all’adulta, tutto ciò formava l’immagine d’una innocenza assoluta (se si vuole accogliere questa parola nella lettera della sua etimologia, la quale è ‘Io non so nuocere’), tutto ciò aveva trasformato la posa fotografica in quel paradosso insostenibile che lei aveva affermato per tutta la vita: l’affermazione d’una dolcezza.”

Per tutti noi, e me compresa, nonostante la sensibilità che fin da adolescente mi ha colto per l’immagine, lo scatto descritto da Barthes potrebbe essere una foto qualsiasi.
Potrei, forse, commuovermi al pensiero che il tempo ha dissolto quella bambina, ma probabilmente guardandola non ne sarei coinvolta quanto lui.
Per altri, ancora, sarebbe solo una vecchia fotografia di famiglia, sbiadita, di quelle che si conservano in grandi scatole di latta…e nulla di più.

Barthes sa che se ci avesse mostrato la foto, a noi non avrebbe detto assolutamente nulla, così l’immagine del Giardino D’Inverno non verrà mai rivelata al lettore de “La camera chiara”.

Se non si può definire cosa sia punctum, si può descrivere però cosa non è. Il punctum deve essere una lente d’ingrandimento sulle nostre emozioni, perciò non basta che sia un particolare strambo, buffo, fastidioso o sgradevole, in grado di polarizzare il nostro sguardo. Molte foto di reportage, pur nella loro crudeltà e violenza, non hanno un punctum capace di lacerarci e proiettarci nella sola dimensione del “sentire”.

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AUTORITRATTO E PUNCTUM

“Una specie di cordone ombelicale collega il corpo della cosa fotografata al mio sguardo: benché impalpabile, la luce è qui effettivamente un nucleo carnale, una pelle che io condivido con colui o colei che è stato fotografato.”

Se l’operator non può mai decidere di inserire con coscienza nel proprio scatto un punctum, essendo un particolare che si rivela casualmente solo allo spectator, cosa succederà, allora, quando parliamo dell’autoritratto, dove i due ruoli coincidono?
Può chi si fotografa decidere coscientemente di far emergere un particolare di sé?
Può impossessarsi della propria interiorità per imprimerla nella pellicola? Può, al pari di Barthes con le foto della madre, ricercare nei suoi (auto)ritratti la propria essenza di fotografato?

“Io animo la foto e lei mi anima”

Posso affermare, dopo tutti questi anni di sperimentazione, che l’autoritratto è in grado di fare tutto ciò.
Ho scoperto che con questa pratica è possibile ricavare immagini aderenti a noi, come esseri pieni d’anima.
Spesso la dimensione dell’anima è racchiusa nell’ombra perché abbiamo timore di scoprire cosa c’è nel nostro interiore. Usando la macchina fotografica al pari di uno strumento sacro, possiamo farla emergere e indagarla, anche solo tramite un particolare.
Quel particolare chiave per alcuni di noi sa essere un vero e proprio punctum.

Credo così tanto in tutto ciò che l’ho trasformato in un vero e proprio percorso, Self (goddess) portrait. Le mie studentesse/dee, lezione dopo lezione, mi confermano la capacità delle immagini di trasformarci, facendomi capire che sì, di tutte le tecniche fotografiche, l’autoritratto è la pratica che meglio riesce a incarnare il potere magico della fotografia.

Mi rendo conto che in questo articolo ti ho parlato di moltissimi argomenti, per cui:

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  • se dopo avertene così tanto parlato, ti interessa approfondire il punctum, leggi questo
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